Viaggio tra due decenni. Parte prima
Avrei potuto chiamarlo viaggio di fine anno, ma mi sarebbe sembrato troppo usuale e vago.
Non si è trattato di uno di quei viaggi che si svolgono mediamente alla fine di un anno per festeggiare l’arrivo del nuovo. Si è voluto invece sacrificare un po’ di quel pazzo divertimento per creare un percorso abbastanza ragionato da poter lasciare senza fiato l’uomo viaggiatore, appassionato di arte, storia e cultura.
Il fato, destino, caso, chiamatelo come volete, ha fatto sì che questo meraviglioso viaggio si svolgesse proprio a cavallo di due decenni. Si è abbandonato l’atrio del XXI secolo per inaugurare un decennio più maturo, con le sue problematiche e nuove rivoluzioni alle porte. Non si poteva ancora sapere, sebbene in Cina la situazione fosse già esplosa (pur tendendo a sottovalutarne l’entità), che presto ci saremmo ritrovati tutti a casa, incapaci di fare altro che osservare pioggia e sole attraverso le finestre, rimpiangendo di non poter più passeggiare o viaggiare lontano dove ci porta la voglia di novità e conoscenza.
Abbiamo ancora foto e ricordi oppure Internet e la sua magia di trasportarci ovunque senza muovere un passo, tuttavia posso assicurarvi con la mia già discreta esperienza di viaggio, che muoversi e vedere con i propri occhi gli oggetti, i monumenti e le città amate e sognate è tutta un’altra cosa, un più vigoroso livello per esperire bellezza, intoppi, felicità.
Una serie di riflessioni nate da questa quarantena forzata mi hanno finalmente portato a decidere di condividere quello che è stato senza ombra di dubbio il viaggio migliore della mia vita. Non l’ho realizzato da solo ma con un amico, Dario, che non so se mi leggerà ma che voglio ringraziare perché probabilmente molte delle riflessioni scaturite si sarebbero limitate a restare nella mia testa se non ci fosse stato lui con cui condividerle, discuterle. Ho omesso nel racconto che segue i momenti di pausa, gli impatti talvolta stupefacenti altre volte devastanti con le camere d’albergo, la ricerca meticolosa di cibo locale che si trasformava in rassegnazione o, vediamone anche il lato positivo, in degustazioni di prodotti che hanno mandato in estasi le papille gustative. Ho voluto sorvolare anche i lunghi trasferimenti tra una tappa e l’altra perché troppo confidenziali e talvolta difficili da riassumere dato che nascevano quasi dal nulla, non si sapeva come, e si concludevano distanti dall’argomento di inizio, ancora una volta senza una chiara spiegazione. Non vi ho voluti tediare con la ricerca dei posteggi per l’automobile, i capricci di quest’ultima (dovuti alla mia difficoltà di adeguarmi al mezzo e alla sua ostinazione nel non volermi venire incontro), il tempo vagamente perduto in estasi o facendo semplicemente nulla: il dolce far niente, come nel dipinto di Waterhouse.
E oggi più che mai, in questo buio periodo nel quale si fatica ancora a intravedere una chiara luce, il ricordo di quei luoghi mi stimola ad amare il mondo, la sua diversità, la sua unicità, portandomi a progettare nuovi viaggi per il futuro. Perché l’uomo non ha nella sua essenza la staticità ma il movimento, non la lassità ma la scoperta. Non perdiamo mai la curiosità, altrimenti non avremmo nemmeno la fantasia che di tanto in tanto ci permette di evadere dai nostri obblighi e, più in generale, dal nostro presente.
Altrimenti cosa ci resterebbe da sognare, imprigionati, senza la possibilità di vedere il mondo?
29 dicembre 2019: Colmar
Colmar è un’atipica cittadina francese costituita da un agglomerato di case squisitamente tedesche. Sorge ai piedi dei Vosgi come una macchia formata da queste case a graticcio bianche come il latte intelaiate da scacchiere di legno tendente al nero. I profumi emanati dalle botteghe rispondono ai tipici aromi teutonici e il vociare dei cittadini, sebbene ben mimetizzati in una cospicua folla di turisti, tradisce un certo bilinguismo. Percepisco la frenesia dell’anno che verrà, in bilico tra sapori antichi e clima di festa.
L’architettura, spicca in questo senso la struttura della Collegiata di San Martino, appare di dimensioni modeste sebbene emani un carattere tipico di quel gotico né francese né tantomeno tedesco, definibile solo come alsaziano. Comunque più simile a quella di Friburgo che al resto della Francia: spicca la pietra più scura, di sfumatura aranciata, e avida di luminosità. L’interno è piuttosto buio, schiarito dalla muratura bianca che viene percorsa per tutta la sua altezza dalle vene rossastre delle colonne addossate ad essa, le quali, più in alto, generano nervature che emergono dalle volte, regalandoci lo schema di spinte e sostegni che regola le leggi fisiche dell’edificio sacro.
Lo spirito del Natale da poco trascorso, dissimile da quello italiano, ridona quel sapore che il freddo cerca di sottrarre passo dopo passo, penetrante nelle ossa e nelle membra. È un clima che talvolta, se associato agli scorci su alcune case che ancora conservano la loro forma turrita del Basso Medioevo tedesco, riporta veramente il viaggiatore a quel tempo, viaggiando anche con la mente alle carestie, alla peste, alla solitudine di muoversi soli su quelle strade ancora deserte. Il Medioevo che mi sovviene a Colmar, città oggi felice e squisita, porta con sé tristezza o meglio una durezza lontana della vita.
Cerco e trovo tepore anche all’interno del Museo d’Unterlinden, dove tra le mura di un ex monastero domenicano del XIII secolo si possono oggigiorno ammirare mirabili collezioni di pittura tedesca, perlopiù locale, con una preziosissima collezione, al piano interrato, di reperti del Neolitico e arte dell’epoca Merovingia e statuaria del medioevo francese. La scultura gotica mi comunica qualcosa difficile da spiegare a parole: ci proverò più avanti nel mio viaggio.
Tra le numerose collezioni d’arte spicca l’opera di Matthias Grünewald. Il mio incontro con il pittore si inaugura con “Le tentazioni di Sant’Antonio”, un dipinto che conosco e di cui ricordavo con chiarezza (come dimenticarle d’altronde!) le figure demoniache, mostruose e deformi, che perseguitano il santo. Draghi butterati e deformi calpestano e strattonano per i capelli l’uomo mentre una creatura umanoide con la testa d’aquila si appresta a colpirlo con un bastone; un appestato con il ventre gonfio di bubboni agonizza proprio quando uno strano mostriciattolo simile a uno scarafaggio pare pronto a saziarsi delle sue carni; infine un demone con corna e sguardo stralunato sembra pronto a volgere il suo sguardo verso di noi che guardiamo la scena. L’osservatore è partecipe a questa scena di grande sofferenza e ne prova timore, paura o quantomeno orrore.
Domina il panorama della collezione del Grünewald la sua “Pala d’Altare dell’Issenheim”. Osservarla dal vivo è molto più che vederla fotografata: trasmette imponenza e leva il fiato. La collocazione stessa è unica: sotto le volte dell’antica cappella ora adibita a salone del museo. Posteriormente la pala narra le storie dell’Annunciazione, del Concerto degli Angeli, della Natività e della Resurrezione cercando nei colori vividi e talvolta innaturali un nuovo ritmo di narrazione. Lo sguardo segue il colore senza mai staccarsi dalla tela e trova nella luce, che dapprima naturale, filtrante dalle finestre di un edificio gotico, diviene divina alla fine inghiottendo lo stesso volto di Cristo risorto in un globo di splendore divino. Un capolavoro a parte è la grande Crocefissione opposta a queste narrazioni. Non ci si trova di fronte a una Crocefissione qualsiasi: lo si comprende scrutando il corpo esageratamente martoriato di Cristo, il gioco di dita nodose dello stesso e quelle intrecciate della Maddalena, lo svenimento quasi mortale della Madonna sostenuta da Giovanni o forse dal piccolo agnello che, affiancato al Battista, volge il suo capo innocente a tutto quello spettacolo di dolore. Il soggetto non è Cristo, come sembrerebbe. No, non cercatelo altrove, non sono la Madre o la Maddalena. Unico soggetto è proprio il dolore: Grünewald dipinge l’assolutezza del dolore. Il soggetto cristiano diviene un mezzo per esprimere questa emozione lacerante, lancinante, straziante.