Viaggio nella Luce

“Stendhal amava Parma, e con “La Certosa di Parma” ne fece l’immaginario teatro di uno dei suoi romanzi più celebri. È forse la città che, grazie a lui, ha più contribuito a creare l’immagine di un’Italia fantastica, in cui gli stranieri credono da un secolo, rimanendo delusi quando si accorgono che non corrisponde al vero.
Tuttavia a Parma quest’Italia bizzarra continua ad esistere in parte, o almeno Parma continua a specchiarvisi, credendoci o non credendoci, non senza una punta di civetteria.”

Guido Piovene, Viaggio in Italia

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Il viaggio nasce da un’idea improvvisa che quasi non mi accorgo divenire realtà. Viene tutto programmato rapidamente, ritrovandomi in una città che mi sono accorto non conoscere per niente.
Il primo contatto con Parma avviene realmente sul ponte che dai giardini di Palazzo ducale conduce, anzi immerge, il visitatore nel complesso monumentale della Pilotta. È un tuffo nel marrone caldo dei mattoni delle mura di uno sconfinato palazzo. Decido di visitare la Galleria Nazionale, ritrovandomi sin da subito nel cuore della Pilotta: il Teatro Farnese. Si tratta di uno spettacolo unico nel suo genere che evoca emozioni solo paragonabili ad un sogno o forse ad uno spasmo di fronte a uno spettacolo naturale. Questo teatro è perfezione: la si percepisce come in un sogno dal quale ci si risveglia non troppo tardi, non troppo presto.
La Galleria Nazionale, imponente per vastità, è soprattutto peculiare per i ritratti di due donne di un’apparente infinita bellezza. La Schiava turca del Parmigianino rapisce con i suoi occhi e intriga con il suo sorriso, anche se è la Scapigliata di Leonardo a colpire con la sua dolcezza modesta. Se la prima incanta, la seconda definisce meglio il variopinto spettro dei colori dell’amore.
E a proposito di amore, è infinito amore quello che un lettore e amante di libri prova facendo il suo ingresso nella Biblioteca Palatina: un corridoio stretto tra due mura di libri estese a perdita d’occhio. Il profumo e l’esperienza olfattiva, indescrivibile, appaga forse più dell’occhio. È il profumo della Storia.
Time present and time past are both perhaps present in time future”. È questa la frase che accompagna il visitatore fuori dalla Pilotta e lo introduce idealmente nella città. Appare sugli alti muri di un cortile, come monito o sentenza. Aggiungerei anche il verso successivo del poeta Thomas S. Eliot per comprenderla ancora meglio: “And time future contained in time past”. Traducendo il tutto, suonerebbe più o meno così: “Il tempo presente e il tempo passato sono forse presenti nel tempo futuro e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato”. Si tratta a mio avviso di un accorato appello all’educazione storica, civica e sociale. Sono le scelte del presente, che, finito di essere istante, appare già passato e tragicamente irrimediabile, a incidere sul futuro. Il futuro non è altro che la realizzazione del ruolo della Storia, la quale rende comprensibile il passato solo alla luce del presente. Per dirla come Edward Carr, grande storico del XX secolo, comprendere il passato è la base per accrescere il proprio dominio sul presente e garantirsi un futuro migliore.

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Per molti Parma è la città della luce. In effetti è straordinariamente unica la luce che, rimbalzando sulle facciate gialle degli edifici, illumina un mondo di torri e cupole.
La piazza del Duomo fatica a trovare questa proverbiale luminosità di prima mattina per poi però irradiarsi al pomeriggio, facendo cambiare volto ai propri edifici. Squisitamente romanico-gotico è il Duomo, la cui facciata a capanna accoglie il fedele in un modo ora antico e quasi domestico, affettivo. Interamente la luce si crea, non si cerca. L’apparato decorativo culmina, ha il proprio fulcro nel vortice della cupola del Correggio, così lontana dagli occhi di chi la osserva ma tanto vicina al cuore di ogni uomo educato alla bellezza.
Abbandono il duomo per recarmi nel battistero, opera dell’Antelami. L’esterno gotico gioca, attraverso la bicromia dei suoi marmi, con la luce parmense. L’interno non permette che gli occhi cadano a terra o si distraggano da quel mondo ultraterreno di decorazioni e statue che conciliava la lunga tradizione romanica italiana con nuove ispirazioni gotiche francesi.

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Inizio a comprendere che la mia peripezia alla ricerca delle opere del Correggio è lungi da potersi dire conclusa.
Poco distante dal Duomo, si trova infatti l’Abbazia di San Giovanni Evangelista, edificio che spicca subito per l’alto campanile. Con un po’ più di attenzione balza all’occhio anche una cupola. È un indizio, poiché all’interno mi trovo nuovamente immerso nel vortice della pittura di Correggio, ponte di passaggio tra equilibrio rinascimentale e ardita teatralità barocca.
Tuttavia, per capire ancor meglio Correggio, manca ancora un luogo fondamentale.

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Mi concedo un fugace passaggio attraverso l’enorme spazio interno della Basilica di Santa Maria della Steccata. Noto sulla volta prospicente alla cupola le figure realizzate questa volta dal Parmigianino e inizio a comprendere similitudini, profonde dissonanza e le potenziali discordie sorte tra questo artista e il Correggio. In questo duello pittorico, per quanto poco importi, la mia personalissima preferenza va al secondo anche a causa di un motivo così nostalgico da sembrare forse banale. È strettamente legato all’opera che mi appresto a visitare, quel luogo fondamentale sopracitato: la Camera di San Paolo, presso l’omonimo monastero. È questo parte di un ricordo che viaggia lontano sino ai primi libri che leggevo quando mi appassionai di storia dell’arte. Il ricordo di uno sfondo verde, sostenuto da ricercatissimi fregi, che trovava spazio tra lunette con dolci figure legate alla natura e alla mitologia, con Diana, dea della caccia, trionfante in corrispondenza del camino. Che emozione vedere quel ricordo prendere vita materializzandosi davanti ai miei occhi! Farli scorrere lungo le profonde nervature della volta a ombrello e attraverso quei colori accesi. Sono i colori dell’emozione. Siedo e mi diletto a smarrire lo sguardo lassù, dove artisti creavano mondi lontani dal dolore terreno, donando la loro arte alla finitezza umana, votandola alla memoria infinita.

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Lascio quindi Parma osservando la semplicità della facciata della Chiesa di San Francesco del Prato. L’interno è in restauro. Non me ne rammarico. È solo la promessa di un ritorno nella città della luce: luce viva e dipinta.

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