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Un ottimista in America (1959-1960)

ITALO CALVINO, “Un ottimista in America (1959-1960)”, Oscar Mondadori (2015)

Che Calvino oltre un grandissimo scrittore sia anche un profeta? Dopo aver letto questa splendida raccolta di scritti qualche dubbio sorge più che spontaneo… Gli Stati Uniti nel biennio 1959-60 visti dagli occhi di un italiano o, meglio, di un europeo. E che europeo! Calvino ci fa immergere, attraverso un diario, una serie di mini-saggi a carattere autobiografico, in un viaggio tra città, del Nord e del Sud, tra meraviglie della Natura e esempi di modernizzazione senza precedenti. Il suo non è tuttavia un semplice diario di bordo o un elenco di luoghi, bensì un approfondito studio del comportamento umano. Per dirla alla Calvino: “impostare la conoscenza dell’America sulle relazioni umane”. Ed ecco come nascono opinioni sull’innovazione automobilistica, sull’utilizzo della pubblicità, su eventi folkloristici e abitudini mondane più o meno scandalose. Calvino si trova immerso nella società della “caccia alle streghe”, del maccartismo, della segregazione razziale, della guerra fredda. È proprio con quest’ultimo argomento che desidero concludere la mia breve disamina, citando forse il paragrafo più profetico, ottimista e pessimista allo stesso tempo, simbolo della genialità assoluta di Italo Calvino.

Le due morali

Sul piano della strutturazione e delle istituzioni della vita civile ed economica, Unione Sovietica e Stati Uniti potranno avvicinarsi; ma il divario sembra difficilmente colmabile sul piano della cultura intesa come forma mentis, come ideologia incarnata nella morale pratica a qualsiasi grado. L’America è il paese dove i movimenti economici, insomma il denaro, sono accettati come la base di tutto, con una sincerità che non ha riscontri in nessun’altra civiltà. Anche la teologia, l’unico valore riconosciuto al di sopra dell’economia, non si pensa sia un’antitesi al mondo del denaro, anzi ha una sua validità in quanto prescrive un comportamento di massima efficienza economica. Gli Stati Uniti sono sempre stati e restano un paese d’una praticità brutale fino al cinismo; ma stiamo attenti a non vedere solo il lato negativo di questa loro sincerità di fondo. Aver ben chiari quali sono gli interessi che ci muovono è già di per sé un’attitudine morale, superiore all’abitudine ipocrita di pretendere per ogni azione motivazioni ideali. La nuova religione americana della felicità, la psicoanalisi, si riduce spesso ad un’egoistica pratica tra igienica e stregonesca, ma rafforza quel fondamento morale laico di sincerità, esteso ora dalla sfera pubblica-economica a quella privata-sessuale. L’Unione Sovietica è una civiltà nata nel bisogno e nella violenza e cresciuta con rapidità e fretta di staccarsi dai ricordi troppo brutali; sente quindi in maniera acuta la necessità di porre in primo piano gli elementi ideali, l’«educazione dei sentimenti» e su questi, quanto e più che sui motivi economici, fa leva per i suoi sforzi collettivi. Così la sua morale di massa (a contrasto spesso con la realtà della politica) è diventata il sacrario dei buoni sentimenti umani ottocenteschi. E il ritmo della vita e delle emozioni è l’opposto di quello americano, scandito dai titoli dei giornali e la corsa della pubblicità: è un ritmo di progetti a lunga scadenza, di concentrazione nel lavoro e nelle abitudini. L sensazione di muoversi in un modo illusoriamente cosparso di zucchero candito emana da molte manifestazioni della vita sovietica, specie per quel che riguarda letteratura e arte; e il ritmo di vita manca dell’eccitazione cui noi, figli del nervosismo occidentale, pare non sappiamo fare a meno; ma si sente che, al di là d’ogni ingenuità finta o vera, al di là della patina di vecchia vita provinciale da romanzo russo, esiste nelle persone una tensione morale, una giovinezza ideale, uno slancio extraindividuale che non ha riscontro in Occidente. È in questo terreno che una compenetrazione tra i due atteggiamenti, quello americano di spregiudicata sincerità e quello russo ancora capace di passioni disinteressate, è più difficile da trovare. Eppure, è quello il punto. Magari potessimo trovarlo noi, questo punto d’incontro, noi che stiamo in mezzo…

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